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Il problema del gender pay gap

Il problema del gender pay gap

Gender pay gap: perché la parità retributiva tra donne e uomini è ancora lontana

Samira Ahmed, giornalista inglese della Bbc, dopo aver scoperto di aver ricevuto 700mila sterline (circa 830mila euro) in meno rispetto al collega  Jeremy Vine, con un incarico analogo in altra trasmissione, ha instaurato una causa contro la sua emittente per discriminazione salariale: il 10 gennaio 2020, il London Central Employment Tribunal  ha dato ragione alla presentatrice: i giudici hanno sentenziato che la differenza è spiegabile solo in un quadro di discriminazione.

Questo caso ci conferma che, il divario retributivo, continua a rappresentare una delle ingiustizie sociali più diffuse a livello globale e che la discriminazione di genere è un problema centrale per le politiche di sviluppo sociale a livello mondiale.

Invero, dati alla mano, se volgiamo lo sguardo al lavoro retribuito, emerge che tra uomo e donna c’è un gap enorme: a parità di lavoro gli uomini vengono pagati di più.

Il World Economic Forum del 2020, che con il suo Global Gender Gap Report ci indica anno dopo anno a che punto ci collochiamo come Paese per quanto riguarda il divario di diseguaglianza di genere, attesta che l’Italia nel 2019 si trova collocata al 76esimo posto su 153 Paesi: tra i 20 stati di Europa Occidentale, dopo il nostro Paese ci sono solo Grecia,  Malta e Cipro. Peggio ancora per quanto riguarda la partecipazione economica delle donne nel mondo del lavoro: qui l’Italia è collocata al 125esimo posto su 173 Paesi.

Ma quali sono i motivi del gender pay gap?

Un  fattore che alimenta il gap, è sicuramente  la scarsa presenza femminile nei ruoli dirigenziali. Le donne manager in Italia sono solo il 27 per cento dei dirigenti totali, un valore più basso di quello medio europeo (33,9 per cento). Tale differenza nella probabilità di ricoprire ruoli apicali è correlata prevalentemente alle scelta di vita delle donne, una questione che può essere affrontata solo agendo sulla genitorialità e sulla condivisione dei compiti di cura tra uomini e donne.

Il grande ostacolo alla progressione della carriera delle donne è infatti costituito dal grande carico di cura che le donne si trovano a sostenere dopo la nascita di un figlio.

Gender pay gap: la conseguente “penalità” sul mercato del lavoro può essere collegata a vari aspetti

Può riflettere le preferenze delle mamme,  che desiderano trascorrere del tempo con i figli e quindi riducono il tempo dedicato al lavoro, mentre il medesimo effetto non è osservato per i papà.
Può riferirsi a stereotipi e norme sociali che inquadrano le donne tra le principali o esclusive responsabili della cura dei figli.
Altro aspetto va colto nel comportamento delle aziende che non riservano alle mamme le stesse opportunità di lavoro e carriera disponibili per i papà.

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Vi sono poi le difficoltà  nella  conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa; i dati registrano, inoltre, una forte incidenza del part-time tra le donne lavoratrici,  con conseguente minore retribuzione anche ai fini pensionistici: il forte incremento del part-time ha investito anche il lavoro a termine, sperimentando così una condizione di doppia vulnerabilità, soprattutto se si considera che nell’82,1% dei casi il part time è di tipo involontario (era il 64,0% nel 2008).

La vera  discriminazione va, dunque, ricercata all’interno  dei ruoli familiari: di solito, le donne fanno più ore di lavoro non retribuito rispetto agli uomini e prendono più periodi di assenza dal lavoro per prendersi cura degli altri. E sono questi aspetti che incidono sulla possibilità di fare carriera e sollevano diverse questioni sulla distribuzione del carico di lavoro (retribuito e non) tra i sessi.  Il lavoro di cura informale, quello svolto gratuitamente, infatti, non produce reddito, ma fa risparmiare molti soldi alle famiglie e alla collettività. Nell’ambito del lavoro di cura, quello svolto dal caregiver familiare, ovvero colui che assiste il congiunto con disabilità, quale genitore anziano o coniuge o figlio invalido, è particolarmente oneroso e comporta sofferenza, affaticamento, afflizione per sovraccarico di responsabilità. A ciò si aggiungono le difficoltà economiche, oltre che per i costi delle cure mediche, anche  per il fatto di trovarsi costretti a ridurre il lavoro retribuito o a rinunciarvi per prestare assistenza: è stato stimato che il 66% dei caregivers familiari lasciano il lavoro. Ciò collega ad un altro dato relativo alla discriminazione, e che emerge dai dati INPS:  nel 2019 le richieste di dimissioni sottoscritte dalle donne sono state il 72,9% rispetto agli uomini (27,1%), donne che secondo l’INPS hanno motivato le loro dimissioni con l’impossibilità di conciliare lavoro figli e famiglia.

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Da qui il dato del calo delle nascite, in quanto le giovani donne sono scoraggiate dalle incertezze economiche e dalle persistenti asimmetrie di genere, sia nel mercato del lavoro sia nel lavoro domestico di cura e quindi rimandano e riducono al minimo le scelte di fecondità.

E dunque il lavoro non retribuito di assistenza e di cura alla persona costituisce il principale ostacolo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Occupazione e politiche per la famiglia sono dunque un intreccio importante per colmare le disparità di genere: il monito è quello di investire nei servizi sanitari e sociali,  nell’istruzione e formazione, al fine di realizzare gli obiettivi sullo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sottoscritti dall’Italia e per assicurare il lavoro dignitoso e servizi di qualità nel settore dell’assistenza e della cura della persona.

Punto di partenza è riconoscere, ridurre e ridistribuire il lavoro di assistenza e di cura non retribuito

Poi bisogna lavorare sugli stereotipi: ad esempio da  ricerche economiche in tema di stereotipi emerge che i valutatori di entrambi i generi attribuiscono il successo maschile al talento e alla competenza e quello femminile all’impegno, alla facilità del compito da svolgere o alla fortuna.

Da ciò ne deriva un condizionamento sia da parte dell’offerta  sia da parte della domanda: errori di valutazione o di autovalutazione sono generalmente inconsapevoli a livello individuale e sono la causa che impedisce alla donne di fare il primo passo del percorso di carriera, la c.d. “porta di cristallo”.

A questa prima difficoltà si sommano gli effetti degli errori di valutazione che ostacolano e progressioni di carriera, che sono generalmente rappresentati con la più nota metafora “soffitto di cristallo”.

Non da ultimo, appare necessario conseguire un’effettiva emancipazione psicologica dai retaggi della cultura tradizionale che continua a far sentire alcune donne ancora troppo vincolate al loro ruolo di madre e chioccia della famiglia e che sono le prime a sentirsi in colpa se delegano il loro ruolo. Molte donne ancora oggi fanno fatica a calarsi nell’ottica di un’equa ripartizione dei compiti di cura con il compagno e così, spesso, rinunciano: o al lavoro o alla maternità.

Con riferimento alla maternità, infatti, oggigiorno la donna si trova di fronte ad una scelta difficile, a partire dallo stesso desiderio di maternità; e più la donna lavora e più per la stessa è difficoltoso realizzare tale desiderio: mentre è mamma sente di togliere tempo al lavoro e mentre lavora sente di togliere tempo ai figli.

Ma, come scrisse Golda Meir (prima e unica donna a essere stata Premier di Israele):

Questa continua dicotomia interiore, questa duplice polarità, questa alternante sensazione di dovere incompiuto, oggi nei confronti della famiglia, domani nei confronti del lavoro, questo è il fardello della madre lavoratrice.

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